Alan Mutter traccia il profilo dei nativi digitali (qui), utilizzando i risultati di un’indagine francese realizzata da Bva.
Un popolo, compreso fra i 18 e i 24 anni, che mostra attitudini e comportamenti in parte nuovi. La tecnologia si mischia alla giovane età. Il rifiuto generazionale dell’autorità è vecchio come la storia del mondo, manifestato in forme e modalità diverse. E poi arrivano la conoscenza multitasking, il consumo veloce dei contenuti. Conseguenze dell’età digitale, si dice.
Catturare il pubblico di domani, i nativi digitali, è una sfida, una delle tante che deve affrontare l’industria editoriale, ma anche chi dello scrivere ne fa una professione.
L’innovazione è un dettaglio. E’ la scatola. L’accento sulle potenzialità del social, sulle meraviglie tech, sulla comunicazione di massa, sono spesso autoreferenziali. Manca – e mi riferisco al paese in cui vivo e che conosco meglio – una scelta ideologica. Ovvero raccontare, costruire un contenuto editoriale per un pubblico di lettori, non utenti. Non sono banalità, anzi lo sono, in luogo normale del mondo non qui.
Ai nativi digitali si dovrebbe assicurare un futuro professionale, non di compratori di giornali. Le mirabilie digital-tecnologiche-social-mediali se non sono animate con gli scritti e l’impegno dei lavoratori – uso questo termine nel senso più nobile e più ricco – pagati dignitosamente e regolarmente sono prodotti scadenti. Un cambiamento in realtà è in atto, forse l’unico, ed è la delocalizzazione generazionale.
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