In questi giorni è disponibile in libreria “Giornalismo e nuovi media”, il libro di Sergio Maistrello sull’evoluzione del mestiere di raccontare.
Il nuovo giornalista sarà, come si legge nell’introduzione, “un professionista consapevole di non avere più né l’esclusiva né deleghe in bianco, che si accontenti spesso di arrivare in seconda battuta sui fatti a fronte di maggiore approfondimento e che sia in grado di lavorare insieme ai tanti nuovi soggetti che affollano lo spazio pubblico delle idee e delle opinioni, a cominciare dai suoi stessi concittadini. Non sarà come prima, ma non sarà necessariamente peggio di prima”.
Un metodo di lavoro che, prima del web, da tempo è utilizzato dall’editoria professionale, specialmente quella economico-giuridica. Lì, riviste e altri prodotti editoriali non hanno mai avuto lo scopo di arrivare prima sulla notizia. Il compito è sempre stato quello di fornire l’approfondimento di qualità, di intermediare tra il fatto – un testo di legge licenziato dal Parlamento – e i lettori.
E' a questa rodata metodologia che si aggiunge – ed è questa la novità assoluta – la condivisione. È un’occasione, una ricchezza. Ma sono richieste capacità ulteriori, oltre a quello dello scrivere. Si deve conoscere la tecnica della produzione del flusso informativo che si genera su internet. E’ fondamentale capire, per esempio, se una foto è truccata, magari ricorrendo ai siti che monitorano simili falsi. Oppure se una serie di notizie su twitter non sia falsa o volutamente fuorviante. Occorre sapersi muovere nel ginepraio della rete senza pungersi.
Fino a pochi anni fa, tra il fatto e l’articolo ci stava solo l’azione del giornalista. Che, è vero, verificava, ma cose materiali – testimoni, documenti, oggetti. Oggi va analizzata anche la rappresentazione che l’intermediazione tecnologica dà a questi elementi.
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