giovedì 30 settembre 2010

Twitter poco credibile

Nonostante sia considerata l’ultima frontiera del giornalismo partecipativo, Twitter non gode di buona fama tra il pubblico. Il blog Mim’s Bits (Technology Review) segnala due ricerche (qui), dalle quali emerge come il microblogging goda di scarsa credibilità.
Percezione che a mio giudizio rende onore all’intelligenza collettiva degli utenti digitali.

mercoledì 29 settembre 2010

Economia, centro di gravità permanente

Il peggio è passato, forse. Ma negli Stati Uniti lo stato di salute dell’economia è ancora preoccupante. Il rischio del cosiddetto double dip è basso, ma esistono poche incertezze sul fatto che la ripresa possa subire un sostanziale rallentamento.
Dunque la copertura dei media sui temi economici resta molto alta, come riporta Pew (qui).


Il tema caldo, come in tutte le economie avanzate, è quello della disoccupazione. La scarsità di posti di lavoro è un’enorme ipoteca sulle prospettive di crescita.

martedì 28 settembre 2010

Mobile e apps, corsa all’oro

Nel Regno Unito gli editori digitali ripongono grandi speranze nei tablet e nelle applicazioni. La ricerca, condotta dall’Association of Online Publishers (che comprende numerosi brand storici come Financial Times, Guardian, Condé Nast), traccia un contorno ricco di progetti e forti aspettative.
Si è trovato il business model salvifico? Forse sì. E quali sono le minacce? Per gli intervistati sono due. Una locale, la Bbc, da tempo accusata d’essere un ingombrante concorrente per il settore. L’altra è globale, ovvero la situazione economia.

La terza occasione, dopo quella persa del web 1.0 e quella sprecata del web sociale, effettivamente presenta una caratteristica nuova. Si chiama controllo. Il sistema dei contenuti sembra, infatti, ricompattarsi dopo la dispersione e la frammentazione imposti dalla rete. Un processo che potrebbe consentire ai produttori di porre fine alla logica del tutto gratis.

lunedì 27 settembre 2010

L’impiegato che scrive

La destrutturazione dei media tradizionali, la forma abbozzata dell’informazione online stanno segnando il futuro della professione giornalistica.

A mio giudizio, in Italia prenderanno corpo tre tendenze:
- il contratto nazionale diventerà più aderente alle possibilità economiche delle organizzazioni editoriali. Inoltre molti istituti, che dovrebbero garantire il rispetto della deontologia e dell'autonomia del giornalista, perderanno efficacia;
- chi scrive sarà un impiegato. A tutti gli effetti, soggetto alla gerarchia e alle logiche aziendali: si bada al profitto (click per view), dunque alla quantità e alla velocità;
- in cambio, le retribuzioni potrebbero diventare - mediamente - dignitose.

venerdì 24 settembre 2010

Marketing editoriale

Da vedere la presentazione di Guido Masnata. Utile percorso sulle strategie possibili che condurranno a un'editoria eco(nomico)-sostenibile.

Kindle 3, direzione giusta

In questi giorni ho avuto modo di provare il nuovo supporto commercializzato da Amazon. E’ un ottimo strumento per la lettura di libri e fumetti in bianco e nero (Tex e compagni, per capire). Leggero, piccolo e a un prezzo ragionevole. Neppure per in istante l’ho percepito come una sala giochi, cosa che mi capita sistematicamente con iPad (lo so non è un e-reader, è… ?).
Segnalo su Kindle 3 la recensione di Stefano, qui.

giovedì 23 settembre 2010

Informazione per ricchi, scuola per poveri

Gli interventi sulla scuola stanno drenando risorse umane e finanziarie. Il progressivo smantellamento dell’istruzione pubblica, peraltro iniziato ben prima di questa legislatura, ha subito una forte accelerazione con i tagli imposti dal ministro Maria Stella Gelmini. Su questo concordano non solo insegnanti e precari, ma anche numerosi dirigenti scolastici. E non tutti provenienti dall’area politica coincidente con l’opposizione parlamentare (qui, sull'università, il rettore della Sapienza, Luigi Frati; qui su precari e tagli)

Condivido il giudizio di Girolamo De Michele (qui la recensione di Benedetta Tobagi del libro “La scuola è di tutti”, Repubblica), ovvero del disegno politico realizzato per foraggiare il business delle scuole private e rendere gli esclusi - perché non possono - “meno colti”, più controllabili.

Tornando al perimetro del blog, European Juornalism Observer (qui) racconta delle prossime iniziative italiane dell'informazione online, orientate sull’aggregazione di contenuti e caratterizzate da redazioni light. 

E’ riproposta l’intervista a Marco Benedetto fondatore di Blitz, il capofila italiano di queste pubblicazioni.
Questo passaggio, che hai tempi mi era completamente sfuggito, deve essere oggetto di riflessione:
“Per cominciare 100mila euro all’anno bastano e avanzano. Metà vanno ai ragazzi che lavorano con me: prendo studenti, disoccupati, precari. Ma sulla parte tecnica credo di aver scelto tra i più bravi”.
Sorvolando sulla delocalizzazione generazionale che sta subendo il Paese, per ragioni di luogo e spazio.

Se questa diventasse la ricetta dei nuovi giornali, il risultato finale non potrà che essere il confezionamento di prodotti di scarsa qualità. Con poche risorse investite sulle persone, sulla parte intellettuale – che dovrebbe essere il core nell’editoria – non si può offrire qualcosa di diverso.
Tendenza che potrebbe portare l’approfondimento, la produzione di buon livello dietro le sottoscrizioni di abbonamenti. A pagamento.

Ora se si torna al punto d’inizio, i tagli all’istruzione, si ottiene una perfetta quadratura del cerchio: una società divisa a metà.
I ben istruiti, provenienti da scuole private, con le risorse culturali necessarie, accedono all’informazione di buon livello.
Per l’altra parte, i figli delle scuole pubbliche, l’orizzonte sarà scritto dalle junk news.

martedì 21 settembre 2010

Aggregatori del lavoro altrui

Federic Filloux critica duramente l’Huffington Post, definito "the mother for all news internet impostures" (qui, Monday note). L’aggregatore è accusato di usare, attraverso sintesi "auto sufficienti", articoli prodotti e pagati da altre testate.
Il metodo. Si prende un articolo, firmato da una firma famosa, l'economista Nouriel Roubini, pubblicato sul Washington Post, tema di forte attualità: la riduzione della pressione fiscale. Il pezzo è sottoposto a cura dimagrante (qui): da 1045 parole a 410. Il risultato? 510 commenti e 72 Facebook like, il triplo rispetto alla fonte originale.

Si può rispondere che l’Huffington Post è altro, che la filosofia della rete è fondata sulla condivisione, che fissare delle regole in questa materia (copyright e dintorni) è praticamente impossibile. E in certi casi l’uso di materiale pubblicato su altri quotidinai entra nella fattispecie del diritto di cronaca.
Però la diffusione sempre più capillare di questa pratica non può generare qualche riflessione. Se tutte le testate diventassero aggregatori, per mancanza di risorse o perché più conveniente, l’ecosistema rischierebbe l’implosione. E’ evidente e non è una novità: il sistema digitale presenta l'anello debole nella generazione del profitto.
Un paradosso di fondo si aggira sulla rete: il fabbisogno finanziario è generato dal vecchio mondo analogico (carta, stampa, pubblicità, vendite), mentre la nuova dimensione tecnologica è un canale essenzialmente distributivo.

lunedì 20 settembre 2010

Community for profit

Nel tentativo di dare un senso ai profitti dell’online e di uscire dal tunnel delle metriche quantitative, molte organizzazioni editoriali riscoprono il valore della comunità. Ovvero gruppi di lettori, tendenzialmente fidelizzati, legati dalla possibilità di “fare” – inviare video e foto, scritti – e connessi dai medesimi interessi. L’obiettivo/speranza è quello di creare un’utenza in grado di creare nuovi sistemi di raccolta pubbliciataria, maggiormente fondati sulla qualità.
Glenn Condrat (qui in Journalistics) presenta le sperimentazioni in corso presso alcuni quotidiani. Gli strumenti sono noti (ma il ripasso ha la sua utilità): sistemi di user generated content, applicazioni Facebook (declinate sullo sport e sul locale), personalizzazione.
Con le accresciute potenzialità tecnologiche, il cambiamento dell’ordine degli addendi potrebbe generare un risultato diverso. Condizionale d’obbligo.

venerdì 17 settembre 2010

Giornalismo nativo digitale

Esiste un giornalismo nativo digitale, con modalità di lavoro e di produzione proprie. L’articolo di Robert Hernandez (qui, su The online journalism review) traccia un’interessante linea di demarcazione sulla differenza generazionale tra le professione dello scrivere.
C’è il giornalista che produce contenuti a prescindere dal media, carta o bit che sia. Dunque il salto tecnologico si verifica nel momento in cui l’articolo è distribuito tramite un supporto high-tech.
Invece il web giornalista concepisce e crea il lavoro in funzione delle potenzialità offerte dalla tecnologia.

Ovvio? Tutto abbondantemente noto? Forse, ma qualche riflessione è necessaria.
Quanti prodotti editoriali sono appiccicati sul web (o su altri device)?
La scelta non è sempre sbagliata. Una sana contaminazione può solo far bene. A mio giudizio sulla carta è riscontrabile una capacità di sintesi formale – di scrivere – mediamente superiore a quella riscontrabile sui prodotti nativi digitali.
Ma se a ciò si sostituisce una semplice attività fotocopiatura, attività tutt’altro che infrequente nei siti d’informazione, s’interrompe ogni processo virtuoso.
Anzi si alimenta una feroce cannibalizzazione: se ci sono due prodotti uguali, è scelto quello gratuito. Legge banale, "sed lex".

giovedì 16 settembre 2010

Notizie anno zero, l’irrazionale ottimismo

La nostra infanzia digitale è finita, dice Tom Rosenstiel (qui l'articolo su Pew). La produzione e il consumo di notizie hanno contorni del tutto diversi rispetto a poco tempo fa. “News 3.0” è la definizione che usa l’autore per descrivere questa nuova era. Il sisma tecnologico ha travolto lettori ed editori. I protagonisti del cambiamento sono noti – motori di ricerca, piattaforme sociali, devices, acculturamento informatico -.

Innovazione, appunto. Con frenetica frequenza spuntano idee, strategie, originali prodotti editoriali. Possono chiamarsi Il Post o iPad. E poi le scelte verticali del Financial Times, i paywall del Times e del Sunday Times.
Eppure, nonostante l’ottima dose di sperimentazione, il filo comune che unisce queste iniziative, salvo qualche rara eccezione, è la difficoltà di fare quadrare i bilanci. Basta abbozzare un business plan, con un pizzico di onestà intellettuale, per comprendere quanto sia alta da scalare la montagna della sostenibilità economica.
Tanto che sembra una vena di ottimismo irrazionale – elemento che comunque ha portato al successo molte rivoluzioni della storia umana – il vero motore dell’innovazione.

mercoledì 8 settembre 2010

Ft, mercati verticali

L’informazione del Financial Times punta sempre di più su aree di nicchia. Recentemente è stato messo online SchemeXpert.com, sito verticale – con analisi e news – sul settore previdenziale. L’ultima iniziativa segue analoghe pubblicazioni specialistiche – Money Media, China Confidential, ecc – (leggi qui).
La formula dovrebbe consentire all’editore di rendersi meno dipendente dalla pubblicità per puntare sulla sottoscrizione di abbonamenti a pagamento.

Dunque sembra che la quadra di un giornalismo online redditizio possa arrivare dall’ambito professionale. Ovvero da contenuti originali e non facilmente reperibili in forma gratuita.

Avatar e i compensi degli amministratori


Le foto non sempre fanno informazione. Anzi l’abuso può generare disattenzione, ingombro gratuito. O hanno forza icastica, oppure è meglio lasciarle nei data base. Le home page che hanno puntato su grandi immagini per lanciare i contenuti hanno pagato un caro prezzo in termini di utenti e pagine viste. Tanto da generare repentine marce indietro. Lo dico per esperienza diretta.

Errore in cui è incappato il Sole 24 Ore, come ho già scritto in passato. Sempre che il quotidiano non abbia nei propri programmi quello di spostarsi verso un contenuto generalista e meno economico. Ma ancora, se il modello è la raccolta pubblicaria è preferibile incentivare i click, piuttosto che nascondere i contenuti
Attualmente a me sembra a metà strada e l’immagine di Avatar per lanciare il pezzo sui compensi degli amministratori (hp dell'8 settembre, fascia oraria del mattino) dimostra quanto sia difficile gestire la scelta grafica.

martedì 7 settembre 2010

Click mistress

Se la raccolta pubblicitaria si fonda su dati di traffico quantitativi, i comportamenti del lettore sono la guida per la produzione e la programmazione editoriale. Scelta che porta con sé il rischio di assecondare pedissequamente la pancia, anziché la mente.
In rete molte realtà, con i conti economici a posto, dunque definibili di successo, aderiscono quotidianamente a questa strategia.

Viene da chiedersi quanto siano definibili "giornalistici" o comunque "editoriali" siti di questo genere.
Non solo. Il rumore di fondo, ovvero la produzione come massa indistinta di lettere, suoni e immagini, per quanto interesserà il lettore? E fino a quando la pubblicità indistinta, appiccicata addosso, svolgerà una funzione efficace per gli investitori? Le risposte arriveranno dal futuro prossimo. Per ora la matrice utenti unici/pagine viste rimane la determinante economica.

Tom Forensky, giornalista ex Financial Times (qui via Lsdi), per salvare il contenuto dallo tsunami mediatico che investe il lettore – con il rischio di passare inosservato – punta decisamente sulla qualità e sulla caratterizzazione del prodotto. Soluzione tanto interessante quanto ovvia. E che richiede troppo tempo perché possa rendersi efficace. Tempo che molte organizzazioni – e i loro bilanci – non hanno.
Interessante il post di Howard Kurtz, Washington Post, sulle frustrazioni da dati di traffico. L'attenzione al click non ha risparmiato le redazioni dei grandi quotidiani Usa.

Alla sfida di rendere economicamente sostenibile il nuovo ecosistema dell’informazione, se ne aggiunge un’altra: mantenerla su percorsi di dignitosa qualità. Un problema che sfiora editori verticali, ma colpisce in pieno quelli generalisti. Almeno fino a quando la quantità sarà la metrica degli investimenti pubblicitari.

lunedì 6 settembre 2010

Alternative al pagamento delle notizie

Il sensibile calo di traffico (- 1,2 milioni di visitatori) e l’assenza di notizie ufficiali sulle performance economiche (leggi qui e qui), fanno sorgere più di un dubbio sulla validità della svolta “a pagamento” di Murdoch.
All’insegna di “the journalism won’t make any money… but you can’t make any money without the journalism”, Adam Westbrook (journalism.co.uk) sulle alternative alla sottoscrizione di abbonamenti.

Mercati di nicchia e coesistenza di diversi modelli commerciali – advertising, shopping online, siti affiliati – come soluzione per la sostenibilità economica del sistema dell’informazione.

Metriche web e giornali

Per chi lavora nelle redazioni online è l’ossessione. I dati del traffico - tempo, utenti, parole chiave – sono i cerchi di fuoco con cui si confrontano editor e giornalisti.
Sul New York Times, Jeremy W. Peters, racconta (leggi qui) come i grandi quotidiani statunitensi utilizzano le metriche web.

La redazione non è più il dominus assoluto che legge e presenta la realtà ai lettori. Un cambiamento che va oltre al condizionamento delle home page, che pure in parte c’è, come si ammette anche al Wall Street Journal.

venerdì 3 settembre 2010

Nuovi editori

Secondo stime pubblicate su Milano Finanza (3 settembre, pag. 5) il settore dell’editoria perderà circa 200 milioni di euro di aiuti pubblici. Effetto dell’addio alle tariffe postali agevolate e del taglio ai contributi. Un incontro – richiesto dalla Fieg – con il ministro dell’Economia e la stesura definitiva della riforma Bonaiuti, dovrebbero fissare contorni più precisi sulle risorse esogene disponibili per il futuro (comunque minori rispetto al passato).
Tagli che si sommano alle difficoltà nel trovare risorse endogene. Periodici e stampa sono in sofferenza nelle versione online, con perfomance piuttosto deludenti (leggi qui), a cui si aggiunge il persistente calo di vendite e raccolta pubblicitaria (seppure in termini più contenuti rispetto allo scorso anno).

Gli editori dovrebbero – si dice – rispondere con l’innovazione e con maggiore coraggio (che serve sempre per investire, ancora di più in periodi di vacche magre). Ovvero sviluppare, creare prodotti, più funzionali al nuovo sistema di supporti tecnologici.
Ma è mancanza di vision o inadeguatezza dei protagonisti? Le strutture editoriali, così come sono organizzate oggi, difficilmente si metteranno in gioco. Per molti motivi: il passato che rappresentano, chi ci lavora.
La risposta potrebbe arrivare dai soggetti nati nell’ecosistema degli anni zero, che pure si chiameranno editori e pure assumeranno produttori di contenuti. Ma saranno una cosa diversa.

giovedì 2 settembre 2010

Test spiaggia, sfida tra carta e device

I-pod e affini rappresentano la speranza, la luce in fondo al tunnel.
Per gli editori. Nonostante una buona dose d’isteria mediatica stia assegnando a questi strumenti compiti – economici – che in questo momento non sono in grado di sostenere. I nuovi lettori, device-dipendenti, nel futuro prossimo non potranno compensare il ridimensionamento dei mercati tradizionali.
Anche perché la sfida tecnologica carta-bit è impari. La prima è ancora troppo “comoda”, più economica, resistente alle intemperie.

Dubbi? In forma semiseria, ma non troppo, ho elaborato il test spiaggia, tradizionale luogo deputato alla lettura – completa – del quotidiano nel periodo delle vacanze.
Risultato: il vecchio giornale vince 4 -1.



mercoledì 1 settembre 2010

Portali, da aggregatori a produttori di contenuti

Assediati dai media sociali – che portano via pagine e utenti –, i grandi portali americani si attrezzano e si trasformano in editori, assumendo giornalisti per creare articoli in proprio.
I cambiamenti e le strategie di Aol e Yahoo! in questo interessante articolo (da American journalism review).

Vecchi protagonisti del web che reinventano ruolo e funzione per evitare di subire i cambiamenti. Nuovi concorrenti per gli editori tradizionali.